Avremmo dovuto capirlo subito che la traversata non era cosa buona (per citare Vittorio dal Libro della Genesi de Chaleby). Avremmo dovuto capirlo quando il direttore ha raccolto gli istruttori all’arrivo del pullman e l’autista ha intonato un ritornello che suonava più o meno così “No, Dario, la traversata non è una buona idea, no, Dario, non hai avuto una buona idea, ma chi me lo fa fare, no, Dario, la traversata non è una buona idea…”. Invece chi era ancora assopito sul sedile (come il sottoscritto) ha ipotizzato che l’autista fosse di malumore per la sveglia poco comprensiva, e non ha colto il segno premonitore.
La parola “traversata” evoca gesta epiche, avventure e sfide come le traversate oceaniche in vela o la traversata della Manica a nuoto, ma anche sacrificio, sofferenza e fatica.
Andrei cauto sul fatto che la nostra traversata abbia avuto qualcosa di epico ma mi sento di sottoscrivere in pieno la parte riguardante la fatica e la sofferenza.
Si parte “in salita” alle 8:20 con il primo guado della giornata e poi una serie di punti e virgola (grazie Simona e Giulia per il termine) per riscaldare le gambe; il gruppo si allunga per poi imboccare una simpatica stradina tra gli alberi. Simpatica fino a che, dopo qualche metro, la neve diventa intermittente. E’ il momento della rivincita di chi ha l’attrezzatura degli anni 70 (come me) e sfreccia sulla terra noncurante di pietre e rami, rispetto a chi ha l’attrezzatura nuova e toglie/mette gli sci una decina di volte.
La salita verso il colle dei Trois Frères Mineurs prosegue tranquilla, qualche punto e virgola, bellissimo paesaggio sotto una nevicata che tiene buona compagnia.
Arrivati in cima ci aspetta una rapida sosta, il tempo di stupirsi che le gambe non facciano male (forse si cominciano a vedere i primi risultati?) e la gita prosegue con una discesa su un manto di neve clemente e piacevole. Forse sto imparando a sciare fuori pista?
Il secondo guado arriva prima della pausa pranzo, un minimo di fatica per godersi poi il cibo intorno a un gruppo di baite, sotto una nevicata che diventa più spessa e bagnata.
Il dopo pranzo assume subito connotati diversi dalla prima parte di gita, si parte con gli sci sullo zaino per i più fortunati, altrimenti con gli sci dentro lo zaino o lo zaino sugli sci per i meno fortunati (Frank ed Enzo l’avevano detto durante la lezione sull’attrezzatura di evitare gli zaini senza laccetti porta sci). Durante la salita al Col des Acles la neve è completamente assente, la si vede solo cadere dal cielo. La salita diventa prima più lunga del previsto poi diventa molto più lunga del previsto e infine lunghissima.
L’arrivo in cima al colle costituisce un momento di sollievo ingannevole, contrariamente alle aspettative la discesa non è breve. Alle 14:30, infatti, la neve ha definitivamente mollato, è un pappone brodoso, la stradina è stretta e ripida, ben presto il gruppo si incolonna e si notano i primi tentativi di sorpasso dettati dall’insofferenza. La discesa procede al rilento lasciando il tempo per gustarsi il paesaggio, sicuramente meritevole. Dopo qualche strappo, qualche frenata e molte derapate, si arriva al terzo guado della giornata, “forse conviene togliere gli sci e continuare la discesa a piedi”.
E’ in quel momento che il mio cervello concretizza per la prima volta sul serio il significato della parola “traversata” e il pensiero va alle memorabili traversate che le Alpi Cozie hanno osservato dalle loro cime e dentro i loro valloni. La più famosa è forse quella di Annibale.
“Se una cinquantina di elefanti ha attraversato le Alpi nell’autunno del 218 A.C. per passare dalla Francia alla Pianura Padana sono sicuro anche io di riuscire a raggiungere Bardonecchia nel 2012”.
Un altro pensiero corre alle scorribande più recenti del generale Nicolas Catinat, Maresciallo di Francia, tra il 1600 e il 1700. “Gli eserciti, Piemontese e Francese, dovevano farne di traversate per combattere a 2500 metri, magari sono passati per questi stessi sentieri”.
A quell’epoca i soldati marcivano affiancati ai muli (che portavano l’artiglieria), i primi a valle i secondi a monte sul sentiero. Il motivo risiede nel fatto che per l’esercito sabaudo un mulo valeva circa undici soldati, un mulo morto andava ricomprato, un soldato morto si poteva sostituire gratuitamente. Non so perché ma mentre arranco per raggiungere le piste del Melezet penso che gli istruttori sono premurosi e attenti un po’ come i soldati sabaudi con i loro muli. Non me ne vogliate male se paragono gli allievi ai muli, almeno è un paragone che ci vede vincitori, possiamo ben dire di esserci comportati bene, senza sbuffare, scalciare e fermarci.
L’arrivo in pista verso le ore 16 è gradito un po’ da tutti, soldati e muli (sono sicuro anche dal generale anche se ero troppo lontano per vedere la sua espressione facciale), ci attende una discesa tra le pozze e poi anche questa gita termina con la merenda e soprattutto con un bel ricordo, tanta soddisfazione, una speranza e una certezza.
Il ricordo di aver fatto una traversata, il ricordo di essere passati in posti stupendi.
La soddisfazione di essere consapevoli che nessun altro mezzo di trasporto meccanizzato ci avrebbe potuto portare in giro per le montagne come le nostre gambe e i nostri sci.
La speranza di sciare un pochino di più alla prossima gita (condizioni meteo e situazione neve permettendo)
La certezza: se nessuno viene in auto la prossima volta, ditemelo che mi sacrifico io.